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Le repere: quella riproducibilità che non toglie l'autentico

26/09/2022

Capita spesso che, durante le ore di sorveglianza, i visitatori della Gypsotheca si avvicinino e chiedano: “dov’è l’originale di quest’opera?”. È una domanda molto curiosa e ricca di spunti di riflessione, perché quando si parla di originalità e unicità dell’opera d’arte, di riproduzione e di esposizione, non esistono risposte semplici ed immediate.
Come sappiamo, Canova procedeva in modo ben preciso nella sua produzione scultorea: dopo aver realizzato disegno e bozzetto faceva un modello di argilla a grandezza reale, da cui veniva ricavato il negativo per ottenere la copia in gesso. Dalla forma (il negativo) potevano essere ricavati diversi esemplari. Uno di questi veniva scelto per essere il modello in cui venivano inseriti i chiodini di bronzo- le rèpere- che servivano poi per riportare le misure esatte di tale modello dal gesso al marmo.
È un processo lungo che prevede tantissime riproduzioni della stessa scultura, ed è per questo che la parola “originale” non calza proprio a pennello in nessuna delle opere. C’è un’opera che potremmo definire “finale”, ma non una unica ed originale. Passiamo dunque ad analizzare il concetto di riproduzione.

Dettaglio delle repere ne Le Grazie di Antonio Canova

La questione della riproducibilità è stata affrontata da Walter Benjamin nel suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935), testo fondamentale per chi si approccia al mondo dell’arte- in particolare a quello dell’arte contemporanea- che parla appunto del tema della riproduzione tecnica dell’opera d’arte nell’epoca della fotografia e del cinema, e di come questa sia responsabile della perdita dell’aura dell’opera.
Come ovviamente puntualizza Benjamin nell’introduzione, la riproduzione nell’arte è sempre esistita. Si parte dal presupposto che ciò che è stato fatto dall’uomo può anche essere rifatto: la riproduzione come imitazione manuale di disegni, sculture, dipinti e così via, è da sempre parte integrante della pratica artistica.
Qui però si pone l’accento sulla riproduzione tecnica, che si è manifestata nella storia con la fusione del bronzo, il conio delle monete, ma anche la silografia, la litografia e la stampa e chiaramente anche nel processo di creazione delle opere di Antonio Canova, fino ad arrivare alla rivoluzione tecnica della fotografia e del cinema.

Secondo Benjamin l’autenticità dell’opera d’arte- che egli chiama anche aura– sta nella sua esistenza unica ed irripetibile nel luogo in cui questa si trova. Con l’introduzione della riproducibilità tecnica va a perdersi l’hic et nunc (il qui ed ora) in quanto viene a mancare la testimonianza storica a cui l’opera è sottoposta nel corso della sua esistenza.
Possiamo però affermare che i gessi di Canova esposti in Gypsotheca a Possagno non abbiano quell’aura di cui parla Benjamin? Che siano semplicemente una mera copia dell’opera finale in marmo e abbiano valore solo in relazione a questa?
Dato per assodato che si tratta sempre di copie realizzate dallo stesso autore e non di falsi, passiamo ora ad analizzare perché i gessi di Canova della Gypsotheca si trovino nella zona grigia della riproducibilità tecnica, ovvero quella sfumatura per cui l’opera è realizzata con il metodo proprio della riproduzione tecnica ma conserva comunque l’aura.

“C’è il legame forte con la città natale dell’artista, a cui egli era legatissimo tanto da donare alla sua comunità il meraviglioso Tempio Canoviano; la connessione con il passato più recente con l’ampliamento di Carlo Scarpa, grazie a cui le opere incontrano nello spazio espositivo la modernità; e ancora la connessione con tutte le realtà museali in cui sono conservati i marmi di Canova.”

Il primo punto che è bene affrontare è la storicità dell’opera. Quando guardiamo i gessi di Canova siamo consapevoli del fatto che questi hanno una storia completamente indipendente da quella delle copie in marmo: il trasporto dallo studio romano dell’artista fino a Possagno, la cessione della proprietà dal fratellastro Giovanni Battista Sartori al Comune, fino ai danni provocati dalla Prima Guerra Mondiale. Questa loro storia autonoma le rende delle opere d’arte autentiche, perché conservatrici di un valore culturale.
Non c’è sottrazione del prodotto alla tradizione o addirittura uno sconvolgimento come quello che si avrà con la fotografia, in quanto questo lavoro abbia origine in un processo quasi rituale e sacro, anche se non dà origine ad un’unica opera.

Arriviamo dunque al secondo punto: il qui ed ora. Ciò che è fondamentale sottolineare è l’autorità che viene data all’opera dall’istituzione museale, che ne permette la fruizione. È anche grazie all’esposizione irripetibile al Museo Gypsotheca Antonio Canova che queste opere mantengono un forte valore. L’hic et nunc non c’è in nessun altro luogo se non in questo museo. Il carattere evocativo acquisito grazie al qui ed ora rende l’opera esposta fruibile tramite un’osservazione lunga nel tempo, attenta, con una distanza propria delle opere autentiche e non riproducibili.

Sono uniche le opere presenti all’interno della Gypsotheca e sono uniche le connessioni che in essa si creano. C’è il legame forte con la città natale dell’artista, a cui egli era legatissimo tanto da donare alla sua comunità il meraviglioso Tempio Canoviano; la connessione con il passato più recente con l’ampliamento di Carlo Scarpa, grazie a cui le opere incontrano nello spazio espositivo la modernità; e ancora la connessione con tutte le realtà museali in cui sono conservati i marmi di Canova. Nessun luogo è o può essere come la Gypsotheca di Possagno, così unica e così evocativa.

A cura di Elena De Noni, studentessa IUAV.